Che cosa vuol dire “partito” o “non partito” per socialisti e comunisti in Italia oggi?
Raffaele D’Agata
Una guerra mondiale in corso non è propriamente la situazione in cui sia normale attendersi lo svolgimento di un tranquillo confronto d’idee circa forme e metodi di organizzazione della politica di opposizione e di lotta contro il sistema che la provoca e la impone. Difficile negarlo. E, se accade (almeno in parte ma quanto basta), chiedersi come mai qualcosa di simile possa accadere diventa urgente e indispensabile.
Sono passati quasi due secoli da quando Marx ed Engels pubblicarono il “Manifesto del partito comunista” (uno e tre quarti, dopotutto) , e tre decenni da quando il contraddittorio ma fecondo universo storico che riconosceva variamente in esso la propria comune radice si è dissolto come elemento di civiltà. La parola “partito” aveva allora appunto quel senso forte: cioè appunto il senso di elemento e fattore di civiltà, riconosciuto già in atto nei moti spontanei di diffuse esperienze umane nelle condizioni date, e tanto destinato ad arricchirsi di volontà e di coscienza quanto bisognoso di ciò. Singoli e specifici “partiti” costituiti e operanti in situazioni date (nella forma embrionale in cui lo erano al tempo della Prima Internazionale) erano qualcosa meno rispetto a questo, pur essendo comunque articolazioni essenziali (ma non concepite come permanenti) di questo.
Dopo lo sviluppo di partiti forti e organizzati di nome socialista ma non meno imbevuti di coscienza comunista (August Bebel si dichiarava indifferente quanto alla scelta tra i due termini per definire sé stesso), quell’elemento e fattore di civiltà crebbe in modo imponente, conquistando da un lato diffuso riscatto delle umane potenzialità di libertà e di amore, cadendo dall’altro in varie ed opposte miserie e malefatte. Oggi comunque, in questa guerra mondiale, l’angoscia del tempo è data dalla sua eclissi, allorché fu invece un prezioso segnale di riscatto nel cuore della prima, e un fecondo fattore di conquiste attraverso la seconda.
Ma ci vogliono pensieri lunghi e pensieri forti in un tempo come questo, non da riservare all’ora della contemplazione e della scepsi indagatrice, ma da applicare alla prassi presente senza intermediazione, e perfino (ma innanzitutto) alla ricostruzione di forme organizzative della politica socialista e comunista in un paese politicamente distrutto (da questo punto di vista) come l’Italia di oggi, dove oltretutto strani brandelli di quella civiltà, completamente alterati, tuttavia conservano ingannevole odore e sentore della loro provenienza, e ben più che altrove (particolarmente, molto più che in Francia), corrompono e deviano la ricerca di strade nuove. A loro volta, le esistenti forme organizzative della resistenza e dell’opposizione all’ordine stabilito, diventato ormai ordine di guerra, presentano l’aspetto di brandelli finora incapaci di ricomporsi intorno a una chiara idea di socialismo e di comunismo fondata sul riconoscimento dei segni e delle necessità dei tempi.
Né il necessario balzo oltre questa inaccettabile condizione potrà mai essere possibile fino a quando le strade seguite finora (ossia, con o senza la dichiarata intenzione ma comunque di fatto, quella dei “cartelli elettorali”) non saranno abbandonate. Nel regime italiano attuale e in base alle regole attuali, le elezioni non possono essere che occasione di agitazione e propaganda (da usare in molti possibili modi, inclusa eventualmente la scelta del puro e semplice rifiuto), e comunque occorre superare una certa inerzia che induce a ragionare su tattiche e possibili alleanze come se vigesse ancora realmente il sistema istituzionale di rappresentanza conforme alla Costituzione e al suo spirito democratico. Ciò vale tanto per i “cartelli” (intenzionali o di fatto) quanto per le schegge identitarie (una delle quali insiste bizzarramente a volersi chiamare Partito Comunista Italiano!) che di volta in volta ne restino fuori.
Dallo sforzo originariamente più promettente, ma da troppo tempo ormai magneticamente attratto verso l’assunzione di una nuova versione del classico e poco gustoso “cartello” (ossia naturalmente da “Unione Popolare”), si attende con urgenza (e nella speranza che un successivo e imprevisto treno sia disponibile) un energico spostamento del baricentro. Ossia, verso il significato e l’agenda storica dell’essere socialisti e comunisti oggi, in questo tempo rivelatore che è il tempo di questa guerra (e naturalmente ciò vale per altre “schegge” che, sfortunatamente o no, non si trovano all’interno della sua presente tessitura). Contenuti riconosciuti comuni dovrebbero prevalere su defatiganti contenziosi circa le forme, permettendo anche di schivare con decisione le pastoie di atti formali come scioglimenti o fusioni. Non sembra affatto impossibile: dopo tutto, anzi, forse incompleti, forse da ravvivare, contenuti tali si percepiscono in abbondanza.
Inerzie più o meno consapevoli, su questa via, sono tra gli ostacoli più gravi. Da un lato quelle provenienti dal passato, come il problema delle “alleanze politiche” ricalcato nei suoi termini su altri tempi, cioè quelli in cui l’Italia era una vera democrazia e il voto era libero. Dall’altro, all’opposto, inerzie da adeguamento, in particolare ai riti e alle forme della politica-personaggio e della politica-spettacolo (problema del tutto indipendente, senza bisogno di rivangare Plechanov, dalle qualità anche ottime di questa o quella personalità).
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