Quell’antisemita di Jeremy Corbyn

Come l’establishment riesce a trasformare gli antisemiti, da sparuto mucchio di pericolosi imbecilli, in sterminate legioni (includenti chi scrive)

Raffaele D’Agata

“Reo” soprattutto, e sostanzialmente, di socialismo, ma formalmente imputato per affermazioni di “colore” antisemita, Jeremy Corbyn è a tale punto un proscritto dal Labour normalizzato e re-blairizzato che la sua candidatura in un collegio per le prossime elezioni à stata bocciata. Ora, già il riferimento al “colore” di qualcosa, come sempre più spesso accade nel caso dell’antisemitismo allorché l’ordine stabilito ne brandisce e ne manipola il termine (piuttosto che il concetto), è abbastanza stravagante nel contesto di ciò che in fondo è esercizio di libertà di pensiero e di democrazia. È anzi stravagante, o semplicemente aberrante, nell’argomentare logico. L’antisemitismo è una sostanza troppo seria, con una storia troppo terribile, per essere trattata come un colore o un odore. Ma non è un caso: in effetti, il modo di definire la sostanza presenta sempre di più falle consistenti (sempre da parte dell’establishment).

Gli antisemiti diventerebbero cioè, da sparuto nucleo di pericolosi imbecilli, sterminate legioni, includenti chi scrive, qualora il suo concetto debba veramente includere l’idea che il riconoscimento di uno Stato come legittimo comporti quello del suo diritto a lasciare indeterminata e determinabile a proprio arbitrio l’estensione del proprio territorio, di misconoscere come ininfluente qualsiasi contributo che l’altrui parere o l’altrui interesse possa dare riguardo a ciò, di stabilire a proprio arbitrio come e dove le persone che vivono entro lo spazio territoriale controllato di fatto possano abitare e spostarsi (discriminando dichiaratamente a tale fine tra quanti abbiano oppure non abbiano una determinata origine etnica o comunque una determinata tradizione religiosa), e di assicurare tutto questo unilateralmente mediante illimitato ricorso a coercizione violenta.

I sostenitori di questa arbitraria e strumentale estensione del concetto di antisemitismo basano il loro argomento sul rifiuto di accettare ogni distinzione tra antisionismo e antisemitismo. Ma, a sua volta, la loro idea (o raffigurazione) dell’antisionismo non brilla per chiarezza né per precisione. Non si può comprendere la storia (né, quindi; interpretare la realtà presente e agire nel suo complesso per migliorarla) senza essere in grado di distinguere tra errori di pensiero (di cui la storia pullula e sovrabbonda) e umane realtà che comunque ne scaturiscano. Il sionismo è un errore teoretico che a sua volta non è che specie di un genere, consistente nel fondare in termini etnici (o “nazionali”) la legittimità degli Stati. Tony Judt lo ha magistralmente argomentato, illustrando il paradigma ideologico e geopolitico dell’Europa (e dello stesso Medio Oriente) del 1919-1920 (tragicamente ripetuto, del resto, dopo la cosiddetta “fine della guerra fredda). Quanto alla realtà che specificamente scaturisce dall’applicazione di questo errore (“sionismo” o no) in Palestina dopo la seconda guerra mondiale (certamente spiegabile sulla base di immediati ed atroci precedenti che pur meritavano anche altra pietà ed altro riscatto se le umane e storiche passioni non fossero a loro volta comprensibili), questa consiste nella comparsa di una formazione statuale dalle origini non più nobili né più pure rispetto a quelle di tutte le altre, e tuttavia dotata originariamente anche di potenzialità positive (più o meno come tutte le altre).

Sviluppate come? La storia del susseguente conflitto arabo-ebraico in Palestina è la storia di una guerra ravvicinata, corpo a corpo, ove da entrambe le parti nulla del peggio che le passioni umane possono manifestare e produrre è veramente mancato, “spiegabile” o no, “giustificabile” o no (Monaco… Deir Yassin…). Tuttavia la politica dello Stato d’Israele non ha mai fatto nulla per incoraggiare e valorizzare le potenzialità costruttive presenti o emergenti nel campo ”avverso” (naturalmente, in quanto diverse da una pura e semplice capitolazione che consistesse in una lacerante perdita di diritti, storia, identità, per di più basata sull’assunzione di colpe altrui, e specificamente nostre). Piuttosto, appare che queste potenzialità sono state sempre considerate il vero e fondamentale pericolo, almeno sulla base degli interessi strategici scelti come scopo di lungo periodo. Quale pericolo, cioè? Precisamente quello di essere “trapped into agreeing”, come Kissinger disse una volta, ossia costretti ad ammettere di essere d’accordo, almeno davanti a un’opinione pubblica trasparentemente informata. Rispetto a tale pericolo, costi pesanti potevano essere pagati in termini di prevalenza di comportamenti di violenza estrema, e comunque di orientamenti ideologico-religiosi intolleranti e regressivi nel campo “avverso” (peraltro anche imitati a propria volta: nell’Israele di oggi, sempre di più).

“Distruggere Israele”, dunque (come i critici della presente ideologia di Stato e delle prassi consolidate di Tel Aviv sono accusati o di volere o di ammettere che si voglia)? Finora, nessuno più dello Stato di Israele ha mostrato capacità di ottenere proprio questo genere di risultato.



Categorie:Uncategorized

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