Quello che Keynes bollava come “residuo barbarico” sembra ritornare materialmente in auge come aspetto della natura e della funzione, prevalentemente nefasta, che il denaro tende a svolgere in questa età di imperfetta e caotica Restaurazione.
Raffaele D’Agata
Mentre i convogli carichi di mezzi cingolati d’artiglieria diretti al fronte attraversavano l’Italia schierata in guerra, le notizie da Khartoum ci hanno detto di signori della guerra scatenati, di morte trionfante e di aspirazioni democratiche umiliate, di fame, di sete, e di sangue. E ci hanno detto anche di miniere d’oro da controllare come posta in gioco. Ossia, se ci fosse bisogno di ricordarlo, di quanto la storia “post-moderna” che si svolge nel nostro presente sia piuttosto simile, se non identica per molti aspetti strutturali, a quella pre-moderna: anteriore anzi di molti secoli a tutto ciò che di liberatorio e di promettente (accanto ad altro) si conviene di riconoscere e di riassumere entro il concetto di modernità.
La guerra mondiale “a pezzi” che caratterizza questo ventunesimo secolo imperversa sullo sfondo (determinante) di una crisi sistemica globale di cui il disordine finanziario e monetario costituisce un aspetto centrale. Stiamo assistendo all’esaurimento finale della spinta a suo modo “propulsiva” (ma in quale direzione, comunque?) del puro Dollar Standard che fu imposto al mondo attraverso la crisi degli anni Settanta del secolo scorso mediante la cosiddetta deregolamentazione finanziaria e le connesse attività di protezione energicamente e quasi consensualmente vendute dagli Stati Uniti a una ristretta ma qualificata clientela di soci minori. Quella operazione permise in effetti al ciclo americano, subentrato a quello britannico nell’evoluzione della configurazione funzionale e gerarchica del sistema-mondo, di perdurare oltre l’esaurimento di gran parte dei suoi prerequisiti strutturali (osservabile fin dalla fine degli anni Sessanta del secolo scorso). L’esaurimento dei suoi effetti si è manifestato in questo secolo anche attraverso il crescente ricorso da parte degli Stati Uniti non soltanto alla vendita di protezione ma anche a un crescente effettivo esercizio di violente attività di protezione più o meno “naturalmente” necessarie, e piuttosto rese tali comunque.
Ciò non toglie che l’esempio americano degli ultimi quattro o cinque decenni possa indurre ed abbia indotto altri soggetti potenzialmente attrezzati a considerare la convenienza di operare attivamente nel ramo della protezione entro la scena globale. Quanto ciò sia oggetto comunque di riflessioni a Pechino (in particolare) non è dato sapere, salvo constatare che azioni conseguenti non sono per ora osservabili in misura rilevante da parte cinese. Ben diverso è il caso della Russia della Restaurazione, che si sente fondatamente in grado di avere successo come operatore nel ramo. La guerra in corso in Europa nasce anche dal suo rifiuto di accettare la perdita (o meglio la rapinosa sottrazione) di un cliente importantissimo come l’Ucraina, resa ancora più grave da un conseguente contesto geostrategico fondatamente percepito come minaccioso. Tuttavia la composizione della clientela guadagnata dalla Russia in questo campo appare costituita non soltanto né prevalentemente da Stati (come nel caso della vicina Bielorussia) quanto da fazioni e comunque da attori bellici informali, soprattutto in Africa, mentre a sua volta lo stesso governo russo utilizza i servizi di almeno uno di tali attori (il gruppo Wagner, imitazione su più larga scala, e con impressionanti analogie, dell’americana Hallyburton).
La straordinaria ricchezza di riserve aurifere nel sottosuolo del Sudan è ampiamente riconoscibile, e riconosciuta, come un fattore determinante nella tragedia che si abbatte sulle persone che vivono in quel grande e popoloso paese. In particolare, le attività che il gruppo Wagner vi sta svolgendo (come impresa professionale specializzata nelle tecniche della coercizione violenta), a favore di una delle armate assoldate dai due competitori locali, sono ampiamente documentate. Ciò configura un circuito di scambi tra appropriazione violenta, vendita, e rivendita (con un potere sovrano, in questo caso la Russia, nel ruolo di acquirente finale) della merce “preziosa”.
Del resto, l’interesse per il metallo per eccellenza prezioso si lascia osservare quasi come una costante (per diversi motivi) nella storia dello Stato russo nelle sue successive configurazioni. Neanche l’Unione Sovietica guardava molto per il sottile nel considerare l’area di coincidenza tra i propri interessi e quelli del Sudafrica razzista in tale campo. Di nuovo c’è, forse, che l’oro riemerge qui più che nel recente passato (a quanto sembra) come possibile portatore di un ruolo monetario rilevante, e come fondamento della sicurezza di almeno un grande paese in campo monetario. E ciò accade proprio mentre il dialogo in seno ai Brics (Brasile, Russia, India, Cina e Sudafrica), mirante a costruire una realtà sistemica alternativa al declinante Dollar Standard, sembra accelerare i suoi tempi e allungare i suoi passi, tanto (forse) da determinare in modo abbastanza rilevante, o meglio tendere a delimitare, i suoi possibili sbocchi.
Mentre il sistema di Betton Woods era in corso di elaborazione in seno alle Nazioni (ancora) Unite, durante la seconda guerra mondiale, il mantenimento di un riferimento all’oro come criterio per la stabilità dei cambi, malgrado le apparentemente fondate obiezioni di Keynes, veniva incontro ai convergenti interessi degli Stati Uniti come allora detentori di enormi riserve di tale metallo e dell’Unione Sovietica come paese aurifero. Alle più avanzate idee di Keynes capitò la disgrazia di coincidere casualmente, e strumentalmente, con le residue ambizioni imperiali del governo di Londra, che durante la guerra tanto Washington quanto Mosca miravano a ridimensionare. Il principio alla base del sistema di Bretton Woods consisteva (comunque) nell’affermazione di un primato della politica sull’economia anche e innanzitutto sul terreno del sistema globale della moneta e degli scambi. Dopo il restringimento del sistema di Bretton Woods e delle sue istituzioni al solo “mondo occidentale” per effetto (o, piuttosto, come causa) della guerra fredda, la sua crisi alla fine degli anni Settanta offriva oggettivamente l’occasione per riconsiderare i suggerimenti di Keynes, mentre tutt’altro sviluppo fu prodotto dalle scelte imposte dagli Stati Uniti e dal contemporaneo disinteresse sovietico per la materia, derivante a sua volta dal disastroso neo-isolazionismo e contro-unilateralismo globale prevalenti a Mosca dopo la guerra del Kippur e la conseguente crisi della distensione.
Nella crisi attuale, il disordine (e la violenza diffusa) risultano ancora prevalenti. Può l’iniziativa dei Brics costituire almeno il seme di un rimedio? I venti che spirano contro sono potenti, non solo dall’esterno ma anche, per ora, dall’interno. Dall’esterno, appare evidente la scarsa disponibilità degli Stati Uniti a fare significativi e concordati passi di lato in un contesto multilaterale rispetto alla loro presente posizione di rendita globale, seppure sempre più precaria in termini strutturali, e la loro minacciosa determinazione a difenderla, all’occorrenza, con qualunque mezzo. Dall’interno, pesa la quasi totale assenza in seno ai Brics di un comune riferimento a un quadro di valori come quelli enunciati nella Dichiarazione delle Nazioni Unite del 1941, applicati quindi ai problemi dell’economia globale attraverso Bretton Woods. E questo peso tende per ora ad aumentare se si considerano le ibride convergenze verso il campo dei Bics di regimi mai abbastanza maledetti come quello dei preti iraniani. Riuscirà la millenaria sapienza cinese, combinata con una lettura meno rigidamente “evoluzionista” della lezione marxiana, a contribuire in modo efficace al superamento di questo iato? La speranza merita di essere coltivata.
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