La vittoria del “no”, per quanto indispensabile, non sarà risolutiva nel lungo conflitto, durante il quale la democrazia non ha fatto che cedere terreno da alcuni decenni. Avremo probabilmente nuovi e diversi mali da affrontare. Ma è la sola strada.
La comunque necessaria vittoria del “no” nel prossimo referendum sui cambiamenti costituzionali voluti dal governo Renzi può avere molti diversi significati e molte diverse conseguenze. Lo sanno bene coloro che invitano a votare “no” per ragioni totalmente diverse dalle nostre: senza che ciò possa e debba indurci a deflettere, naturalmente.
Alla radice profonda ed essenziale del nostro “no”, prima di ogni altra considerazione (e molte ce ne sono), sta la ferma volontà di difendere e affermare ancora oggi, e dopo lunghi e vittoriosi attacchi ricevuti, il primato delle ragioni della democrazia su qualsivoglia vincolo di sistema sociale ed economico attualmente dato, che costituisca criterio assoluto di efficienza per le regole di formazione delle scelte politiche. Il fatto poi che questi frettolosi mutamenti non siano neanche efficienti, per non dire neanche seri, rafforza naturalmente il proposito. Ma l’essenziale è quello.
Ciò non significa tuttavia che la vittoria del “no”, per quanto vitalmente necessaria, sia risolutiva in questo ormai lungo conflitto, durante il quale la democrazia non ha fatto che cedere terreno da alcuni decenni. Oltre quella cima, o quel ponte, da conquistare, non possiamo né dobbiamo aspettarci tutto il bene, e forse nemmeno – immediatamente dopo – qualcosa di più che mali diversi da attraversare. La differenza sta solo nella possibilità di raggiungere il bene (sempre relativo, in quanto bene politico) che comunque intendiamo affermare, e fondamentalmente si riassume nella salda garanzia di quel primato. E che soltanto la vittoria del “no” può lasciare aperta.
La necessaria vittoria del “no”, una volta conseguita, avrà avuto intanto l’immediata conseguenza di smantellare la ferrea e quasi esplicita combinazione tra i mutamenti costituzionali da respingere e una legge elettorale sciagurata. Ed è partendo da questo che bisogna pensare già ora i vincoli e le scelte del percorso ulteriore.
La sciagurata legge elettorale in questione, come sappiamo, fu imposta con orgogliosa sicurezza da un governo che pensava di servirsi di essa senza ostacoli al fine di consolidare definitivamente la propria dittatura di minoranza (perfino più ristretta, in ipotesi, di quella quarta parte di paese reale che allora gli esprimeva consenso). Venuta ormai a mancare questa aspettativa, lo stesso governo (se resterà), la cambierà non appena possibile, con o senza lo stimolo di una sentenza della Corte costituzionale circa la sua peraltro palese illegittimità. Se sciaguratamente il governo dovesse vincere il referendum, ne nascerebbe sicuramente un nuovo stravolgimento del principio di rappresentanza, congegnato stavolta in modo tale da evitare risultati elettorali non previsti o comunque sgraditi. Certo, ci sarebbe allora quella strana norma della cosiddetta “riforma” costituzionale, che vuole introdurre il giudizio preventivo della Corte sulle proposte di legge in materia elettorale (alterando in modo significativo il sistema della separazione dei poteri già ampiamente manomesso nei nuovi effettivi rapporti tra potere esecutivo e potere legislativo, entro i quali la stessa “riforma”, del resto, è nata). Facile immaginare il clima, se non di ricatto, di almeno oggettiva pressione, entro il quale il governo giocherebbe la partita.
Con la vittoria del “no”, invece, saranno aperte molte possibilità. Innanzitutto, infatti, quella stessa orgogliosa sicurezza mosse il governo a volere che la sua legge elettorale valesse per la sola Camera dei Deputati, dando per scontato che un nuovo Senato non sarebbe più stato elettivo. Restando il Senato elettivo, invece, per costituirlo si dovrebbe votare con le norme già rese valide dalla Corte costituzionale mediante la sentenza che dichiarava l’illegittimità della Legge Calderoli, ossia con metodo sostanzialmente proporzionale. Inevitabile sarebbe allora rendere compatibili i due sistemi di voto.
Lo potrebbe fare la stessa Corte, intervenendo coerentemente sul cosiddetto “Italicum” come già ha fatto nei confronti della Legge Calderoli (o, per dirla in parole povere, applicando al Porcellum 2.0. lo stesso criterio usato nei confronti della prima versione del medesimo imbroglio). Un governo Renzi malauguratamente salvo dopo novembre non esiterebbe un istante ad opporre a ciò un Porcellum 3.0., più abilmente dissimulato e più opportunamente congegnato per i suoi fini. In un modo o nell’altro, la cosiddetta governabilità sarebbe assicurata da forti incentivi alla formazione di un blocco centrale moderato sul modello di Strasburgo o di Berlino, mirante a tenere faticosamente a bada oppure blandire il cosiddsiddetto populismo di destra, a scommettere su una possibile disarticolazione della nebulosa pentastellata, e a contare sulla costante incapacità di incidere da parte della sinistra.
Quali interventi sull’ingegneria del sistema politico sarebbero invece all’ordine del giorno nel caso di una sconfitta politica di Renzi e del renzismo? Una prima previsione da fare è che ci sarà molta nostalgia di centrosinistra, anche come portato della pur benvenuta discesa in campo di D’Alema (e,timidamente, della stessa CGIL) in favore del “no”: perciò, anche molta nostalgia di maggioritarismo elettorale in versione decente e all’incirca legittima. Una tale nostalgia dovrebbe affrontare in un modo o nell’altro il crollo dell’impalcatura in gran parte fittizia entro cui le manifestazioni di volontà politica collettiva erano state forzate entro un codice binario (o “bipolare”) quasi prestabilito. Insomma, bisogna anche prevedere molti vecchi e nuovi equivoci, ma soprattutto molta confusione.
Come risolvere il problema in tali termini, naturalmente, è affare di chi nutre quella nostalgia. Nostro affare è come riaffermare il primato del principio di rappresentanza, il carattere parlamentare e non presidenziale della sola democrazia e della sola Repubblica che sia legittima, e perciò del metodo proporzionale di elezione del Parlamento. Strada non breve e non facile, lungo la quale certamente ci sarà da incontrare e da attraversare oscillazioni e rischi di inceppamento (“instabilità”, come molti la chiamano) anche di ciò che resta dello Stato democratico devastato dalla somma dei colpi dei suoi antichi e sommersi nemici e dagli avventati esperimenti fatti sul suo corpo negli ultimi venticinque anni. Strada per la quale non abbiamo ancora mezzi, né cultura veramente condivisa, né bandiere abbastanza riconoscibili e unificanti. Ma ce ne sono forse altre?
Raffaele D’Agata
Categorie:Uncategorized
E’ un ragionamento che non mi convince in quanto è necessario uscire da una situazione di “stagnazione” politica. La proposta costituzionale sottoposta a referendum ci permette di uscire da questo impasse senza pericoli di derive anticostituzionali. Non dimentichiamo poi la presenza del primo partito: gli astenuti (a prescindere che si tratti di referendum o di elezioni politiche/amministrative
A mia volta mi dichiaro rispettosamente non convinto giacche’ l’obiezione mi appare tautologica. Dato cio’ che io intendo come stagnazione da cui uscire, a me pare che il senso dell’operazione, come cerco di dire, sia quello di renderla sempre piu’ definitiva e insuperabile.