Sono passate, evviva.

Queste elezioni, naturalmente: con i loro risultati tutt’altro che imprevedibili e sotto certi aspetti in parte preoccupanti e in parte interessanti. E fuori, per adesso, si può lavorare meglio.

Resta vero, al di là dei numeri usciti dalle urne, che il gruppo di giovani napoletani del centro sociale “Je so’ pazzo” hanno suscitato e messo in campo la più interessante novità politica in Italia, poco più di tre mesi fa, dopo l’altrettanto irrituale comparsa del Movimento Cinque Stelle all’inizio di questo decennio. La differenza non sta soltanto nella ben diversa chiarezza con cui – nel caso più recente – obiettivi, scopi e valori di riferimento sono indicati nello sfidare una stessa oggettiva realtà: cioè, la desolante passività che l’intero sistema dei partiti della cosiddetta “seconda Repubblica” ormai presentava agli occhi delle persone verso la fine del primo decennio del Duemila nei confronti di presunte ferree leggi dell’economia globale, in un modo o nell’altro. Questa differenza, naturalmente, è essenziale, ma non è bastata finora, e non sembra poter bastare, per assicurare alla derivante impresa di “Potere al popolo” il futuro di successo che sarebbe auspicabile.

La ragione per cui la chiarezza delle idee non basta per sostituirsi al M5S nel rappresentare la maggioranza del malcontento sociale non sta soltanto nella ben diversa disponibilità di mezzi già iniziali per affermarsi nello spazio della comunicazione di massa. Sta invece anche (e forse soprattutto) nel diverso tempo in cui le due novità (una delle quali non più nuova, e comunque non precisamente buona) si sono presentate. La prima, cioè il Movimento Cinque Stelle, lo ha fatto con perfetta coincidenza di tempi rispetto all’esplosione della crisi di consenso del sistema politico ormai quasi un decennio fa (con un culmine nelle oscure vicende del 2011). E in tal modo ha, semplicemente e brutalmente, occupato lo spazio della protesta continuando a tenerlo (tutto sommato) in modo abbastanza abile.

Per quanto una completa analisi scientifica dei flussi elettorali non sia ancora disponibile, una pur grossolana intuizione, peraltro diffusa e abbastanza fondata, è che la storica vittoria elettorale del Movimento Cinque Stelle il 4 marzo 2018 sia stata determinata da una sua ulteriore conquista di consensi entro un’area di variamente definibile o non troppo definibile (ma rilevante) opposizione alle costrizioni del sistema economico e sociale. La stessa cosa, del resto, poteva dirsi fin dalla sua ormai abbastanza lontana origine, e tanto più per quanto riguarda l’attuale contemporanea crescita dei consensi popolari ricevuti, di un movimento ideologicamente e culturalmente conservatore e non privo di venature fascistiche come la Lega Nord.

Per citare ancora una volta una delle poche intuizioni giuste di Mihail Gorbačev, insomma, “chi arriva tardi è punito dalla vita”: rimprovero che non si può muovere certamente ai giovani napoletani in quanto tali (perché essere nati tardi non può essere una colpa), ma certamente sì a tutta l’esperienza della cosiddetta sinistra radicale organizzata, con la quale la loro generosa iniziativa ha quasi fatalmente finito per essere confusa agli occhi delle persone (gran parte delle quali si erano anche abituate un po’ a torto un po’ a ragione a fare quasi tutt’uno di quest’ultima come dell’intero vago concetto di sinistra e di centro-sinistra veicolato dal sistema dell’informazione di massa). Bastava partecipare anche poco all’attività di propaganda di “Potere al popolo” nelle strade e nei quartieri – purtroppo – per sperimentare la presenza di queste percezioni e l’estrema difficoltà di modificarle.

Senza più la fuorviante preoccupazione per obiettivi elettorali che erano fuori portata nel breve termine per le ragioni appena enunciate, l’esperienza di “Potere al popolo” ha intatte e perfino accresciute possibilità di crescere come spazio di riorganizzazione e di auto-rappresentazione  dell’opposizione sociale. Questa crescita sarà tanto maggiore quanto più risulterà accentuato e valorizzato il suo carattere di novità rispetto all’intero recente passato di ciò che le persone intendono per “sinistra”, radicale o no (e nello stesso tempo la sua disponibilità ad ascoltare e interpretare creativamente le lezioni di un passato meno recente). Il personale politico di quest’ultima, e anche le sue pratiche organizzative, dovrebbero accrescere anziché diminuire la loro a volte ancora timida generosità nel fare “passi di lato” a questo fine (valorizzando proprio in tal modo quei meriti che pure hanno avuto).

Le sollecitazioni provenienti dalle scadenze politiche dei prossimi mesi possono ostacolare molto un tale sviluppo. Ed essere fuori da questo difficile Parlamento può facilitare il modo di affrontarle, perché renderà più immediatamente riconoscibile l’irrilevanza di ogni discussione su questioni “di schieramento” o “di alleanza” echeggianti le ormai annose faide di un personale politico almeno molto logorato, e perciò darà più spazio al lavoro sui temi reali che occuperanno in modo prepotente l’agenda che incombe.

Sarà diverso, naturalmente, fare i conti con un governo Di Maio tollerato da Bersani e da quanto resti di minimamente decente (e de-renzizzato) nell’attuale PD (ipotesi migliore), oppure con un governo nientedimeno guidato, o comunque fortemente influenzato, da un Salvini. Nel primo caso, il problema fondamentale sarà non regalare a Salvini l’opposizione sociale a quelli che saranno gli inevitabili cedimenti ai dettami della finanza “europea” e mondiale.

Tra un anno, purtroppo, ci saranno di nuovo incombenze elettorali da affrontare, per di più proprio “europee”. Ragionare per evitare che siano occasione di sterili contrapposizioni (spesso su pseudo-idee come l’europeismo o l’anti-europeismo) sarà un impegno importante.

Raffaele D’Agata



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