Il tono euforico del governo di Atene, e dei suoi poco critici e poco utili amici, nel festeggiare una scadenza formale sulla via della sua umiliazione tuttora in corso, sollecita riflessioni piuttosto impegnative.
L’imbarazzante euforia mostrata dal governo di Atene nel commentare la scadenza finale della terza fase del percorso di dolorosa espiazione imposto ai suoi compatrioti dalla dittatura transnazionale della grande finanza (con il proprio consenso in gran parte forzato) contrasta con varie cose importanti. Contrasta innanzitutto con ammonimenti e dichiarazioni da parte di organi accreditati di tale dittatura, cioè con loro vere e proprie minacce miranti a scoraggiare ogni illusione e spegnere ogni possibile proposito di vera libertà. Contrasta con le cupe e purtroppo credibili previsioni elettorali. E contrasta con la realtà dello spaventoso e permanente impoverimento del popolo greco, ben poco alleviato dall’argomento che, senza accettare quei castighi, altri ne sarebbero venuti di ancora peggiori.
Non perché questo argomento non sia serio, e non meriti attenta considerazione. Ciò che è in questione non è la scelta fatta tre anni fa in presenza di una pistola puntata alla tempia (malgrado ogni dubbio circa l’opportunità e le motivazioni stesse di una precedente consultazione popolare che aveva dato indicazioni diverse); e non è nemmeno, strettamente, proprio ogni successiva scelta dettata da interlocutori restati con lo sguardo fisso e la mano sulla fondina. Ciò che è in questione è l’eccesso di motivazione di quelle scelte, ovvero la loro motivazione falsa, fuorviante, e (soprattutto) disarmante. Avere scelto la vita, sia pure in modo umiliante, essendo responsabili per altri e non soltanto per la propria personale dignità, non è condannabile in sé. Ma dire e anche ripetere di farlo anche per qualcosa come l’ “Europa”, e insomma per una ipotetica causa condivisa con gli aguzzini, è altra cosa.
Per questa ragione, ogni appello a condividere posizioni definite in base a una falsa contrapposizione tra “nazionalismo” ed “europeismo”, “sovranismo” e “globalismo” dovrebbe essere respinto più o meno gentilmente. La stessa sottostante narrazione, del resto, mette in imbarazzo per la difficoltà di metterla in qualunque relazione con cose realmente accadute o attualmente reali.
Innanzitutto, cioè, la cosiddetta globalizzazione non è qualcosa da difendere o non difendere. Semplicemente, ci sono soltanto sue sparse e anche rilevanti tracce; ma, come vero fenomeno storico che segni un’epoca, la globalizzazione non è che alle nostre spalle. È stata liquidata per opera delle stesse forze che avevano messo in moto il suo processo di formazione mezzo secolo fa, e per le stesse ragioni – nazionaliste e sovraniste – che allora le avevano mosse a farlo.
Fu mezzo secolo fa, infatti, che patti multilaterali di cooperazione e interdipendenza economica e finanziaria stabiliti tra le nazioni durante la guerra mondiale antifascista (per quanto già depotenziati, e ristretti ad uso di una sola parte del mondo e di un preminente blocco di interessi, nel quadro e come ragione della guerra fredda) furono spezzati dalla potenza degli Stati Uniti in quanto giudicati non ulteriormente compatibili con il mantenimento della propria supremazia globale. Libere fluttuazioni del dollaro furono allora rese compatibili con la conservazione del suo ruolo di moneta globale grazie a un complice rilassamento di regole e controlli che rendesse conveniente il suo uso da parte degli investitori internazionali e che le costrizioni della concorrenza generalizzarono rapidamente. Allo stesso scopo, si favorì la formazione di ingenti attivi finanziari da riciclare a favore della potenza americana mediante ciniche manovre geopolitiche e militari in Medio Oriente. E a quelle manovre geopolitiche si aggiunse infine l’uso anche economico di una “carta cinese” in funzione antisovietica (e in qualche modo anche anti-giapponese), e la conseguente formazione di un sistema di complementarità finanziaria tra crescita produttiva cinese e potenza globale americana abbastanza simile a quello stabilito dalla Gran Bretagna con il Reich bismarckiano durante la “belle époque”.
Dipingere tutto ciò in idilliache forme universaliste, ragionevoli, e perfino umaniste, è quindi imbarazzante. In effetti, ciò che fonda e sostiene ordinamenti economici globali non sono la ragione e la scienza (tanto meno teorie economiche opinabili e tuttavia elevate a vera e propria “sharìa”), ma il potere. E fu appunto il potere (quello, condizionante, sorto come conseguenza della rivoluzione sovietica, e quello di una politica statunitense per un momento capace di osare democrazia e di comprendere le ragioni di quella) che permise la formazione del solo sistema globale di interdipendenza che (per quanto dimezzato e depotenziato nel quadro e come ragione della guerra fredda) abbia comunque permesso alla democrazia di fronteggiare con successo il capitalismo fino a metterlo addirittura in questione.
A questo, con l’aiuto e in funzione di altri disegni di potenza, il capitalismo ha reagito (finora) vittoriosamente, ad un prezzo che si fa sempre più alto per il genere umano.
Raffaele D’Agata
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