Il manto fiabesco dei Trenta Ingloriosi

C’è da lavorare e ragionare molto quanto al  modo di demolire le basi unilateraliste e sovraniste sulle quali il sistema della globalizzazione è cresciuto finora, e costruirne di nuove. Ma costruire su quelle esistenti (inclusa l’Unione Europea) è un’idea che soltanto forti dosi di oblio della realtà storica, comunque ottenuto, possono veramente suggerire.

La storia d’amore tra la sinistra occidentale e la globalizzazione concorre in modo non trascurabile a produrre il mito del fascino irresistibile di questa, che a sua volta tende ad abbellire quello della sua ineluttabilità. È una storia ormai molto lunga, che dopo alcune cocenti delusioni (specialmente nel corso del decennio cominciato con il Grande Crollo del 2008) si prolunga oggi con aspetti che non è esagerato dire struggenti. Redimere e riconquistare la bella traviata sembra essere il tenace sogno di chi vede un progresso irrinunciabile, nonché la base indispensabile per ogni pur invocato miglioramento, nei processi sinteticamente ed efficacemente descritti da Ulrich Beck come ciò per cui “gli Stati nazionali e le loro sovranità vengono condizionati e connessi trasversalmente da attori transnazionali”.

La fotografia scattata da Beck (nel 1997, a dire il vero, e naturalmente molte cose sono frattanto accadute) dà certamente informazione chiara sull’ambiente storico nel quale, comunque, siamo ancora immersi. Ma può ingannare se la si guarda separatamente da tutta una successione di altre immagini, e di fatti corrispondenti. Se la si guarda così, la mente può anche andare al quasi-panegirico dedicato da Marx ed Engels nel “Manifesto del partito comunista” all’opera oggettivamente rivoluzionaria della borghesia come forza trasformatrice che “abbatte tutte le muraglie cinesi” e spazza via il “variopinto mondo feudale”, così da unificare il mondo ed arare il terreno sul quale (soltanto) un ulteriore salto verso la compiuta realizzazione dell’essenza umana diventi possibile. Forte tentazione, evidentemente. Così forte da indurre a non prestare lo stesso grado di attenzione che Marx tuttavia prestava alla funzione delle cannonate reali (specificamente, quelle della Guerra dell’Oppio) senza di cui quelle metaforiche rappresentate dal “basso prezzo delle merci” ben difficilmente sarebbero bastate ad abbattere alcunché (cose, queste, che Marx non dimenticava comunque mai).

Il ruolo degli Stati come attori “sovrani”, specialmente per quanto attiene a quel fondamentale aspetto della sovranità che è costituito dall’esercizio di forza coercitiva verso l’esterno, sarebbe dunque stato attenuato a tal punto da diventare una componente secondaria del panorama complessivo della globalizzazione? Certamente, attori diversi da Stati hanno assunto un ruolo importante in tale campo, proprio come accadeva agli albori della civiltà capitalistica, e proprio in questa sua fase che dovrebbe apparire estremamente matura e avanzata. Ma non si può ignorare nemmeno che la presenza di attori di questo genere (da al-Qaida all’UCK per finire, si spera almeno, con l’orrore estremo dell’Isis) è largamente frutto di volontario e studiato permissivismo da parte di soggetti dotati di classico e tradizionale potere sovrano (in particolare, ma non solo, gli Stati Uniti d’America). In altre parole, tali attori integrano, non sostituiscono (e condizionano soltanto parzialmente, soprattutto sotto forma di conseguenze più o meno indesiderate di calcoli affrettati) queste classiche e tradizionali forme di potere coercitivo, che si sono comunque manifestate in modo virulento e pervasivo durante i decenni della globalizzazione.

Conciliare lo schema ideologico della globalizzazione, accettato e promosso oggi da gran parte di ciò che fu un tempo la sinistra in Occidente, con l’attuale onnipresenza della guerra, si presenta come un problema oggettivamente complesso. I più banali tentativi di soluzione hanno principalmente gettato la colpa sulla persistenza di forme di potere restate impermeabili alle innovazioni, tali da generare in diverse forme (comunque da ricondurre a un concetto elastico e sfuggente di dittatura) fattori di instabilità e di insicurezza che fossero comunque da affrontare. Come tipico esempio di ciò si può ricordare la partecipazione di un governo italiano guidato da un ex-comunista all’aggressione contro la Serbia nel 1999. In modo meno elementare, cause di deragliamento e conseguente arresto o insuccesso di promettenti processi innovativi possono essere imputati ad arretratezze ideologiche e politiche persistenti anche in paesi e culture che abbiano un ruolo trainante in tali processi, secondo uno schema che quasi riecheggia la critica debole dell’imperialismo elaborata a suo tempo da Hobson, ed efficacemente confutata da Lenin.

Ciò che resta nascosto, in tale genere di visioni, è che i processi reali della globalizzazione furono avviati proprio sul terreno “sovrano” della politica di potenza e innanzitutto come strumento di questa. La deregolamentazione selvaggia dei mercati finanziari fu avviata al fine di rastrellare verso gli Stati Uniti il risparmio mondiale, onde mantenere una base artificiale ma ben munita alla loro preponderanza di potere coercitivo; e ciò ebbe luogo anche tra molti malumori e perplessità di banchieri pubblici, costretti infine ad adeguarsi in base alla consapevolezza che regole cattive tendono ineluttabilmente scacciare le buone in tale campo. Ed è innanzitutto una fluida e volatile mobilità dei capitali, cui solo in parte corrisponde o non corrisponde una più o meno importante permeabilità delle frontiere politiche a flussi (o, specialmente, deflussi) di beni reali, che costituisce l’aspetto fondante, ed essenziale, della globalizzazione.

Alla medesima storia d’amore, e alle conseguenti modificazioni della vista, è in gran parte da riferire come suo particolare aspetto l’attuale europeismo di sinistra, che consiste in una enfatica professione di lealtà costituzionale verso l’Unione Europea stabilita essenzialmente dal Trattato di Maastricht del 1992. Molti fili lo legano infatti abbastanza strettamente al mito riguardante la globalizzazione. Il più visibile e più spesso ricordato di questi fili è un’idea di soglia minima di grandezza (intesa proprio in senso territoriale) al disotto della quale quel tanto di governo politico dell’economia e dei processi sociali che la globalizzazione possa comunque ammettere o anche richiedere sarebbe ormai condannato all’irrilevanza e all’inefficacia. Essendo tradotto spesso anche nel senso di postulare come indispensabile una scala adeguata a sostenere la competizione globale in un mondo caratterizzato dalla presenza di macro-aree, questo approccio contiene una contraddizione ideologica piuttosto seria qualora si intenda rivendicare e giustificare il consenso alla globalizzazione come una forma attualizzata di internazionalismo, solitamente enfatizzata come tale mediante una vivace contrapposizione nei confronti del cosiddetto “sovranismo” di quanti neghino tale consenso (estendendo tale negazione di consenso, coerentemente, alla stessa Unione Europea). Tale contraddizione risulta spesso aggirata, in Europa, mediante la più o meno esplicita identificazione esclusiva del sovranismo stesso con qualunque resistenza e qualunque reazione contraria al crescente indebolimento degli esistenti Stati membri dell’Unione (così come appare e se ne dice, o meglio negli specifici campi in cui ciò effettivamente accade) quanto a capacità di decidere. Tale indebolimento rappresenterebbe cioè comunque una storia di successo sulla via del superamento del modello di organizzazione del potere costituito dallo Stato territoriale, talmente rilevante da meritare comunque intanto una strenua difesa.

Se tutto questo avesse fondamento, potrebbe averlo comunque soltanto nei termini di una trasformazione di scopi voluti (che, per quanto riguarda l’Unione Europea, non sono mai stati di tale genere) in risultati non voluti (più o meno corrispondenti a qualcosa di simile alla ragione): cosa possibile soltanto se le volontà originarie fossero frattanto cambiate, o comunque rese ininfluenti per effetto di radicali trasformazioni nella distribuzione del potere tra i principali attori politici e sociali coinvolti. Per quanto insistentemente l’Unione Europea venga cioè contrapposta al concetto di sovranità nazionale, e al più o meno auspicato o comunque auspicabile superamento di questa, di fatto fu proprio la clamorosa rinascita di un grande e classico Stato nazionale, cioè la Germania (non altro che nazionalmente concepita e definita), insieme con i conseguenti assestamenti non sempre proprio tranquilli della configurazione geopolitica del subcontinente europeo, che rappresentarono la principale ragione della formazione dell’Unione Europea così come la vediamo e la conosciamo (in luogo delle vecchie strutture di una realtà sostanzialmente diversa, ossia della CEE). Sulla base di quelle vigorose iniezioni di sovranità (accompagnate, all’epoca di Maastricht, da ondate di nazionalismo anche violento, che resero il subcontinente europeo molto più simile al suo sinistro aspetto del 1918 che a quello che prometteva di assumere nel 1945), la Germania fu guidata a proseguire e completare la tattica già iniziata dalla sua metà occidentale durante il caotico processo di formazione della globalizzazione, innescato dalla politica di potenza degli Stati Uniti: assicurare intorno a sé l’equilibrio di una macro-area tanto condiscendente verso il primato della speculazione allora stabilito quanto esente dai periodici scossoni prodotti dalla flessibilità del dollaro. Ciò fu ottenuto a un prezzo relativamente basso, cioè rinunciando a un nome della moneta carico di valore simbolico, come quello di marco, per condividere un nuovo nome, cioè quello di euro, con gli altri paesi della macro-area. E un tale apparente sfoggio di umiltà otteneva comunque come contropartita una rigidità assoluta e automatica dei rapporti di cambio che riportava i rapporti tra denaro, lavoro, e necessità reali, allo stato pre-democratico che li caratterizzava nell’epoca del Gold Standard. L’ideologia (folgorando, tra le altre cose, una sinistra più o meno consapevole) ebbe un ruolo importante nello spacciare tutto ciò come un’acquisizione di progresso in senso internazionalista e interdipendente, laddove il solo prezzo serio sarebbe stato l’assunzione di responsabilità effettive (particolarmente circa gli eccessi di surplus) in cambio di un ragionevole e non automatico controllo coooperativo della stabilità dei cambi, sul modello di Bretton Woods.

La crisi di tale modello negli anni Settanta del Novecento ebbe due risposte unilaterali e sovrane (in primo luogo da parte degli Stati Uniti e in modo distinto e compatibile da parte delle successive configurazioni dello Stato tedesco) tuttora determinanti, che sono alla radice della globalizzazione e tuttora costituiscono gran parte della sua sostanza (e perciò anche della sostanza dell’Unione Europea come aspetto regionale della globalizzazione e delle sue contraddittorie pretese). Di fronte ai cosiddetti “Trenta Gloriosi”, cioè i tre decenni dopo la fine della seconda guerra mondiale durante i quali il capitalismo fu comunque costretto ad accettare limiti posti dalla democrazia (in un equilibrio fortemente contraddittorio e tuttavia promettente e non povero di risultati in termini di miglioramento civile complessivo), stanno ora, alle nostre spalle, almeno tre decenni di inglorioso trionfo della speculazione, del cinismo, e soprattutto della guerra, nuovamente riconosciuta come cosa normale e lecita anche se spesso sotto falso nome.

C’è da lavorare e ragionare molto circa il modo di demolire queste basi e costruirne di nuove. Ma costruire su queste basi e su ciò che ulteriormente è cresciuto su di esse (inclusa l’Unione Europea) è comunque un’idea insensata, che soltanto forti dosi di oblio della realtà storica, comunque ottenuto, possono veramente suggerire.

Raffaele D’Agata



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