Una rifondazione del sistema della convivenza tra i popoli secondo gli autentici e originari valori delle Nazioni Unite sembra irraggiungibile guardando l’orizzonte di fuoco. Ma quello è il cammino.
Raffaele D’Agata
Dopo quattro settimane di guerra europea parlano ancora solamente le armi (o le voci che vi si intonano) mentre la ragione stenta a farsi udire proprio come le accadeva quattro mesi dopo il luglio del 1914 e continuò poi ad accadere per altri quattro anni (ma, in altri modi,ben più a lungo).
L’idea predominante è quella di vittoria. Ma è questa veramente un’idea, il cui contenuto sia chiaro? Vittoria di chi, di che cosa? Su chi, o su che cosa?
In una guerra come questa, che già soltanto avendo luogo ha ormai spazzato via un ordine globale, può “vincere” solamente un’idea di ordine globale che, comunque, non può essere lo stesso che è andato in pezzi. Ma continuano a parlare solamente bombe, non idee.
Quale aspetto potranno avere l’Europa anche in relazione con il resto del mondo, e il resto del mondo in relazione con l’Europa, dopo questa guerra? La politica è avara di indicazioni e di elementi (siano pure parziali e discutibili) riguardo a ciò. Quale memoria quale pietà,quale risarcimento per il dolore, si può sperare di elaborare e di vivere in un futuro che non sia di violenza “enduring”, ossia (come del resto è stato proclamato e bandito all’inizio di questo secolo maledetto) senza fine?
Ciò che appare evidente è che nessun ordine umano e giusto della convivenza umana sulla terra può fondarsi sull’auto-esaltazione del proprio “noi” (più o meno realmente vissuto e condiviso, oltreché proclamato) e il disprezzo di un “loro” (più o meno razionalmente e oggettivamente raffigurato e definito) da parte di chiunque. Di nessuna delle parti in lotta ha senso auspicare oggi, perciò, una qualche “vittoria”.
Fino a quando i motivi del suo guerreggiare si lasceranno dire anche e specialmente con le parole di un Dugin o con quelle del Patriarca Kirill (troppe volte echeggiate dallo stesso Putin, e nemmeno troppo sconfessate da un partito comunista inquietantemente eclettico e comunque difficilmente riferibile all’eredità di Lenin), la Russia compromette qualunque relativa “ragione” possa avere. Ma nemmeno si può dimenticare che quelle torbide forme di pensiero sono anche il riflesso speculare, rovesciato, di un altro tronfio ed auto-esaltato eccezionalismo, la cui pretesa di fungere da guida e faro della civiltà umana urta contro montagne di crimini e di menzogne.
Cupo, perciò, è l’orizzonte. La politica è strettamente al servizio delle guerra, e a sua volta la guerra è strettamente al servizio di un sistema di distribuzione del potere di controllo e destinazione delle risorse di vita che non promette altro che distruzione e morte. Tuttavia, la parola d’ordine della “pace e senza annessioni né riparazioni” (o “senza sanzioni”, oggi dovremmo dire), che oltre un secolo fa avviò la riscossa del socialismo internazionalista e rivoluzionario attraverso le opposte trincee, dovrebbe adesso risuonare con la massima possibile eco.
Tradurre questa parola d’ordine in un’agenda pratica esattamente definita per una conferenza di rifondazione dell’ordine internazionale, ossia necessariamente del sistema delle Nazioni Unite, da riconnettere alle sue origini storiche ossia ai suoi veri e plurali valori fondanti, è certamente prematuro. Ai posti di guida (con la parziale eccezione, forse, di Pechino: ma molto parziale) stanno menti impermeabili a ciò, o fermamente decise ad esserlo. In più, ciò che è accaduto alla fine del secolo scorso, in termini di terremoto geopolitico e di rigurgito di paleo-nazionalismi avvolti e mascherati entro retorica universalista astratta e mendace, rende aspre e intricate, anche attraverso successive involuzioni, molte questioni che riguardano la distribuzione spaziale delle funzioni di guida della convivenza civile (essendo questo il solo significato umanamente degno della parola “confini”).
In una tale conferenza, per ora lontanissima, bisognerà finalmente intendersi (per esemplificare) su ciò che vi sia stato o vi sia di diverso tra Kosovo e Crimea; che cosa poi distingua (anche in relazione con presenti pretese provenienti da Ankara) il tema del Donbass, e i possibili modi di trattarlo, da quello del Kurdistan; o anche, se vogliamo, su perché mai nel Donbass non si possa vivere come oggi si vive nel Tirolo meridionale.
Ma tutto ciò non sarà possibile che per un cammino lungo ed aspro. Un cammino di rivoluzione.
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