All’inizio del secondo anno di una guerra europea simile a quella di un secolo fa, la Cina assume iniziativa in modo analogo a quanto Washington tentò di fare nel 1916. Ecco perché, appunto, non basta.
Raffaele D’Agata
Era naturale che Biden e Zelensky, per non dire che due, reagissero al piano di pace cinese con la stessa infastidita irritazione con cui Clemenceau e Sonnino, sempre per non dire che due (ma molto indicativi) reagirono alle offerte americane di mediazione che la seconda amministrazione Wilson cercava di avanzare da Washington. L’analogia si completa considerando anche la reticente insoddisfazione che, sotto una superficie di ufficiale ma non caloroso compiacimento, appare come la risultante dei divergenti assi cartesiani ideologico-culturali (si veda su ciò l’illuminante editoriale del numero 1/2003 di “Limes”) che tendono a orientare l’effettivo atteggiamento di Mosca quanto ai motivi e agli scopi della guerra (ulteriore analogia, in questo caso con la Berlino di allora).
Come allora, in effetti, la guerra in corso è la manifestazione acuta, (risultante da una complessa, serpeggiante e instabile catena di azioni e reazioni) di una fase di transizione egemonica nel corso dei cicli braudeliani: allora, dal ciclo britannico al ciclo americano; oggi, dal ciclo americano al montante ciclo cinese (che l’America non appare disposta ad assecondare benignamente, così come l’Inghilterra non lo era all’inizio del secolo scorso). L’irrequietezza del potere egemonico declinante ha effettivamente prodotto un’alta frequenza e un’alta intensità di attività belliche nei primi anni di questo secolo (Irak, Libia, Siria, operazioni pregresse e ultimamente fallimentari in Afghanistan) il cui scopo fondamentale, al fondo, è stato e resta quello di promuovere e imporre a una clientela abbastanza vasta una ineludibile offerta di protezione avendone preventivamente generato l’apparente necessità (mediante complesse manovre di cui i contraddittori rapporti con il fascio-islamismo sono stati uno degli aspetti più significativi). Contrastare e provocare la Russia a prescindere da motivi (nella modalità ben descritta da Bergoglio mediante l’esempio dell’ “abbaiare davanti alla porta”) si spiega appunto con la necessità di coltivare tale clientela, fidelizzata ulteriormente mediante l’allargamento ad Est dell’UE e della NATO e la contrapposizione tra “vecchia Europa” e “nuova Europa” (orientale), anche in senso sottilmente anti-tedesco.
Senza qui andare oltre su ciò, conviene mettere in luce l’aspetto chiave della proposta cinese, ossia l’accento sul concetto di sicurezza collettiva contro la scelta di “rafforzare o espandere i blocchi militari”. Si tratta senza dubbio dell’aspetto più innovativo e positivo rispetto alle tendenze oggi prevalenti a livello globale. Implicitamente, qui sembra trovarsi l’ipotesi coltivata nel suggerimento apparentemente o volutamente ingenuo (adesso) di “sostenere Russia e Ucraina affinché si incontrino”: Ciò sembra valere specialmente se si considera che il primo punto cioè la riaffermazione del rispetto anche dell’ “integrità territoriale di ciascun paese secondo le leggi internazionali riconosciute” non suona oggi affatto (invece) come il modo migliore di favorire tale già difficilissimo risultato, proprio mentre opinioni autorevoli negli Stati Uniti si spingono a ipotizzare la ripetizione di qualche referendum, almeno in Crimea (e a questo proposito non è inutile ricordare che il Saarland fa parte oggi della Repubblica Federale di Germania come conseguenza di più referendum tenuti non più lontano che negli anni Cinquanta e Sessanta del secolo scorso).
Appare evidente che quel primo punto preme oggi a Pechino piuttosto pensando a Taiwan che pensando al Donbas, ed è pensando a Taiwan, con ogni evidenza, che Pechino relega il principio di autodeterminazione tra le cose da dimenticare, o peggio. Ma qui la questione non è filosofica o di principio. Taiwan è meno storicamente ed etnicamente cinese (per quanto l’etnia conti in tutta la plurimillenaria vicenda del mondo sinico) di quanto l’Austria sia storicamente ed etnicamente tedesca, cosa che non impedisce a tedeschi e austriaci di avere due Stati diversi se entrambi lo vogliono. Qui il fattore Sesta Flotta (USA) appare piuttosto determinante, o almeno si deve auspicare che lo sia nella mentalità che ispira l’atteggiamento di Pechino circa Taiwan.
Poiché comunque una svolta politica nella guerra in corso non può essere imminente (mentre comunque un immediato cessate-il-fuoco senza condizioni, basato sul congelamento del fronte, può e deve comunque rappresentare lo scopo urgente e realistico di ogni politica sensata), è su temi più fondamentali che l’iniziativa cinese invita a riflettere: cominciando dal punto chiave, cioè dal principio della sicurezza collettiva contrapposto a quello dei blocchi militari esclusivi. Potrà mai il centro economico declinante accettare una transizione ordinata e concordata, allorché il suo blocco militare esclusivo costituisce oggi la sua principale assicurazione rispetto all’ansietà provocata dal declino?
Se vogliamo (come dovremmo) adottare questa possibilità (almeno come kantiana “idea regolativa della ragione”, ma senza affatto relegarla a utopia) non possiamo non estendere il concetto di sicurezza collettiva oltre il terreno della geopolitica, per toccare e trattare quello della geoeconomia. La contraddizione di fondo dell’attuale visione cinese circa l’ordine mondiale è tra la critica delle pulsioni di potenza bellica e le dinamiche della globalizzazione, allorché invece le prime sono semplicemente l’effetto delle inevitabili contraddizioni di questa. Ma proprio Pechino si colloca oggi come l’ultimo convinto campione dell’attuale “seconda” globalizzazione, così come l’amministrazione Wilson, di fronte al terrificante incendio della “prima” di un secolo fa, riproponeva i suoi fondamenti, con analogo zelo neofitico, a cominciare dal recentemente abbracciato Gold Standard.
Così dunque come il modello cinese, per citare Arrighi, avrebbe bisogno oggi di molto meno Adam Smith e molto più Keynes (e soprattutto molto più Marx depurato delle sue tentazioni deterministe ed “evoluzioniste” attualmente abbastanza seguite in Cina), il modo in cui oggi Pechino assume responsabilità per la convivenza sul pianeta avrebbe bisogno di molto meno Wilson e molto più Roosevelt. Avrebbe bisogno cioè di una geoeconomia dove il denaro sia collocato pienamente al servizio di necessità comuni anziché queste a quello (secondo le idee originarie di Bretton Woods, enunciate durante la seconda guerra mondiale) e di una geopolitica tendente a modificare lo stesso destino braudeliano dei cicli egemonici unilaterali per una più aperta e reciproca comunicazione di storie, culture, e relative potenzialità.
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